Vigilanza privata e Ministero dell’Interno, “vorrei ma non vorrei” la libertà

Non è necessaria un’esegesi troppo approfondita della comunicazione che proviene dal mondo della vigilanza privata per cogliere il senso di esasperazione e di frustrazione degli operatori per l’attuale pessima qualità delle relazioni con il Ministero dell’Interno, l’autorità alla quale il settore è assoggettato dal TULPS del 1931.
I suoi rappresentanti lamentano che il dialogo tra l’amministrazione e le parti sociali, che in passato aveva consentito di concertare positivamente i termini della riforma imposta dalla sentenza di Strasburgo del 2007, sia stato interrotto (leggi) in modo unilaterale dal Viminale proprio quando i suoi uffici periferici (prefetture e questure), le imprese (istituti di vigilanza) ed i lavoratori (guardie giurate) avevano maggior bisogno di direttive chiare e condivise per gestire una transizione tutt’altro che semplice dal vecchio al nuovo modello.
Alcuni pensano che l’interruzione sia stata provocata dai ricorrenti ricambi di funzionari delle PA che, talvolta, possono portare ai vertici degli uffici persone inesperte della materia di cui si devono occupare e, magari, poco propense al confronto; altri sostengono invece che al ministero ci sia stata una decisione consapevole di trasformare il dialogo, giudicato ormai inutile con soggetti che non possono più venire gestiti e controllati come prima, in un flusso di direttive calate dall’alto sugli aspetti ancora sottoposti a regime autorizzatorio.
Un osservatore esterno potrebbe domandarsi perché gli imprenditori non traggano lo spunto da questa situazione per richiedere formalmente una più ampia “laicizzazione” del settore per affrancarsi finalmente dal giogo degli anacronismi del TULPS ed alleggerire l’amministrazione, afflitta dai tagli degli organici e dall’endemico deficit digitale della PA, da un fardello di incombenze burocratiche che poco o nulla contribuiscono alle funzioni di controllo che competono all’Autorità di P.S.
Sempre guardando da fuori, si allineerebbe una volta per tutte il sistema italiano ai modelli internazionali che hanno consentito altrove lo sviluppo di “imprese di sicurezza” (leggi) del tutto incomparabili con i nostri bonsai di provincia, rimasti tali proprio a causa di quell’anomalo rapporto di “subalternità concessoria” nei confronti dello Stato.
In realtà, la sensazione è che gli operatori nostrani siano sempre più infastiditi dai lacci della burocrazia ma, in fondo, non vogliano perdere del tutto l’ombrello protettivo del regime autorizzatorio temendo la concorrenza delle imprese di sicurezza non regolamentate, avvezze a combattere sul mercato senza esclusione di colpi.
E, sull’altro fronte, non si può escludere che, mentre gli impiegati degli uffici territoriali di Polizia Amministrativa gioirebbero per il minor carico di lavoro, non tutti i dirigenti degli stessi uffici sarebbero felici di rinunciare al piccolo potere, dall’antico sapore borbonico, che possono ancora esercitare nei confronti dei titolari di autorizzazioni di PS.
Insomma, un “vorrei ma non vorrei” la libertà da entrambe le parti che, purtroppo, sta ritardando la realizzazione di un modello di partenariato autentico e compiuto tra pubblico e privato, che consenta di utilizzare proficuamente uomini, competenze e mezzi della vigilanza privata per la sicurezza del Sistema Paese.

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